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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006)
A2. L’espressione “come per un lutto” (riga 6) significa: A. come se non avesse sentito bene. B. come se gli fosse morto qualcuno. C. come se volesse ferirsi. D. come se volesse picchiare il pittore
B
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2009_05_SNV_A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006)
A3. Le domande che il mercante fa al pittore, all’inizio della storia, hanno lo scopo di: A. ridurre il prezzo del dipinto. B. capire se il pittore è onesto. C. vedere che cosa è capace di fare il pittore. D. scegliere il tipo di cavallo da far dipingere.
A
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A4. La parola “selvaggio”, alla riga 15, è il contrario di: A. selvatico. B. buono. C. purosangue. D. domato.
D
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A5. Il mercante dice: “Via, via di qui, monelli! Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi” (righe 19-21). Queste parole ci fanno capire che il mercante è: A. tirchio e arrogante B. vanitoso e iroso. C. severo e poco intelligente. D. spiritoso e chiacchierone.
A
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A6. Da che cosa si capisce che i fatti raccontati si svolgono in un paese arabo? A. Dalla presenza di cavalli selvaggi B. Dai mestieri dei personaggi. C. Dai nomi dei personaggi. D. Dalla razza del cavallo dipinto sul muro.
C
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A7. Nella frase “I bambini andarono a raccontare la meraviglia” (riga 24), la meraviglia si riferisce al fatto che: A. il dipinto è stato finito molto in fretta. B. il pittore ha dipinto un cavallo molto bello. C. il mercante ha fatto dipingere bene il muro. D. il cavallo sta immobile in un’impennata.
B
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A8. Nella storia si dice che il pittore “ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro” (righe 30-31). Perché il pittore usa la stessa tinta? A. Per danneggiare il dipinto. B. Per non fare arrabbiare il mercante. C. Per non sciupare il muro. D. Per fare riuscire meglio il suo piano.
D
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2009_05_SNV_A
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A9. Il pittore cancella il cavallo: A. perché il mercante si è preso il merito del dipinto. B. perché il mercante gli ha dato meno di quanto stabilito. C. per punire il mercante che maltratta i bambini D. per punire il mercante della sua avarizia.
D
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A10. Per spiegare la scomparsa del cavallo dipinto, il pittore dice al mercante che: A. il cavallo è fuggito. B. il cavallo si trova nell’oasi. C. la pittura durava solo una notte. D. ha voluto fargli uno scherzo.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006)
A11. Alla riga 43, “La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare” significa: A. La gente ride così forte che non si sentono le parole del mercante. B. La gente ride così forte che il mercante non ha il coraggio di rispondere. C. La gente ride così forte perché il mercante non sa che cosa rispondere. D. La gente ride così forte perché il mercante non riesce a parlare dalla rabbia.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006)
A12. Quale modo di dire riassume meglio quello che è successo al mercante? A. Chi rompe, paga. B. Meglio soli che male accompagnati. C. Oltre il danno, anche la beffa. D. Il meglio è nemico del bene.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006)
A13. Secondo te, i fatti raccontati nel testo: A. sono successi davvero. B. potrebbero succedere. C. non potrebbero mai succedere D. potevano succedere solo in un lontano passato.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006)
A14. Questo racconto è stato scritto soprattutto per: A. divertire e far riflettere. B. far capire che gli scherzi finiscono male. C. insegnare a rispettare l’arte dei pittori. D. descrivere le abitudini di altri popoli.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B1. Dove vivevano numerosi i panda nell’antichità? A. In Occidente. B. In Cina. C. In poche aree isolate. D. In alcune riserve protette.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B2. Da quanto tempo gli occidentali conoscono il panda? A. Da più di 4000 anni. B. Da più di 1600 anni. C. Da 800 anni circa. D. Da 140 anni circa.
D
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B3. Chi ha fatto conoscere il panda nel mondo scientifico internazionale? A. Un prete occidentale. B. Un naturalista cinese. C. Uno scienziato del WWF. D. Un esploratore contemporaneo.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B4. Da che cosa sappiamo dove era diffuso il panda nel passato? A. Dalle immagini del satellite. B. Dalle spiegazioni del WWF. C. Dai fossili trovati in quei luoghi. D. Dai resti trovati nelle trappole
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B5. Alle righe 15-16 si legge “Niente di bello, purtroppo!”. Perché? A. Le foreste di bambù si sono dimezzate. B. L’ambiente naturale non è bello. C. Ci sono trappole dappertutto. D. Non si riesce a vedere i panda.
A
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2009_05_SNV_B
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B6. Perché la “deforestazione” è un pericolo per la sopravvivenza del panda? A. Le foreste sono un ambiente pericoloso. B. Il panda non può più nascondersi nel fitto fogliame. C. Le foreste sono troppo estese. D. Il panda non trova più da mangiare.
D
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B7. Che cos’è il “bracconaggio”? A. La distruzione dell’ambiente naturale da parte dell’uomo. B. La cattura o l’uccisione illegale di animali C. L’esportazione di animali esotici D. Lo sport della caccia.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B8. Alle righe 24-25 si dice che il panda “si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù”. Il termine “principalmente” significa: A. unicamente. B. non solo. C. più che altro. D. anche
C
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2009_05_SNV_B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B9. Il bambù non è molto sostanzioso. Come fa il panda a sopravvivere? A. Ne mangia tanto. B. Lo mastica a lungo. C. Sta per fermo per più di 14 ore al giorno. D. Mangia sempre anche altri cibi.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B10. Nella frase “Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale” (righe 21-22), “Compensando” si può sostituire con: A. Benché compensi. B. E così compensa. C. E siccome compensa. D. Perché compensi
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19)
B12. Qual è l’argomento principale del testo? A. La riduzione della zona delle foreste. B. L’osservazione dell’habitat fatta mediante i satelliti. C. Le condizioni di vita del panda. D. I problemi che riguardano l’alimentazione del panda.
C
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C2. Qual è il soggetto della frase: «Manca ancora una settimana alla fine dell’anno scolastico»? A. Ancora. B. Una settimana. C. Fine. D. Anno.
B
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C3. Qual è il predicato verbale che puoi unire al soggetto “La cioccolata”? A. È al latte. B. È molto amara. C. È stata mangiata. D. È fondente.
C
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C4. In quale delle seguenti frasi il verbo “avere” è usato come verbo ausiliare? A. Poiché ho molta fame, vado a mangiare. B. Visto che Luca aveva due sorelle, desiderava un fratellino. C. Poiché abbiamo perso la partita, la squadra è stata eliminata. D. Visto che abbiamo tempo, possiamo giocare ancora un po’.
C
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C5. Nella frase «Sono contento di aver incontrato Gianni perché non lo vedevo da tanto tempo», la parola sottolineata è: A. articolo determinativo. B. pronome personale. C. congiunzione. D. preposizione.
B
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C6. Quanti nomi comuni sono presenti nella frase: «Ivan è un ragazzo simpatico che abita nell’appartamento sotto il mio»? A. Uno. B. Due. C. Tre. D. Quattro.
B
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C7. Quali sono i soggetti delle due frasi che compongono il periodo: «Ho comprato una rivista che si intitola Cani e gatti»? A. una rivista - che. B. io - che. C. io - Cani e gatti. D. una rivista - Cani e gatti.
B
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2009_05_SNV_C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A1. Che cosa significa “oltremodo corpulento” (riga 2)? A. Decisamente obeso. B. Privo di finezza. C. Smodato nel bere e nel mangiare. D. Che si ammala facilmente.
A
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2009_08_PN_A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A2. “L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto” (riga 3): qual è la causa probabile del malore del conte Fossadoro? A. L’età avanzata B. Un embolo cerebrale. C. Gli eccessi alimentari. D. Problemi respiratori.
C
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2009_08_PN_A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A3. Con quale espressione sostituiresti “di riflesso” (riga 9) A. Nonostante ciò. B. Di conseguenza. C. Notoriamente. D. In teoria.
B
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2009_08_PN_A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A4. Nel periodo “L’illustre dottore giunse al palazzo verso le due accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti” (righe 11-12), che valore ha la frase “anzi sostenuto”? A. Contraddice quanto espresso prima. B. Indica un fatto precedente a quello espresso prima. C. Corregge ironicamente quanto espresso prima. D. Ribadisce con forza quanto espresso prima.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A5. Con quale espressione sostituiresti “Come” nella frase “Come il sommo entrò nella camera” (riga 13)? A. Siccome. B. Nel modo in cui. C. Quando. D. Finché.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A6. «Il Leprani ascoltava senza fare una piega» (riga 17). Quale aggettivo può sostituire l’espressione “senza fare una piega”? A. Impassibile B. Incuriosito. C. Rigido. D. Annoiato.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A7. Nel periodo “Come il Marasca, primo assistente del maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie” (righe 30-31), perché la parola resurrezione è messa tra virgolette? A. Si vuole metterla in risalto. B. Non è considerata appropriata. C. Non è usata nel suo significato letterale. D. È una citazione tratta da un discorso.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A8. Qual è la “cosa gravissima” (riga 36” che sta succedendo secondo il professor Marasca? A. Lo scandalo che scoppierebbe se la gente sapesse che il conte non è malato bensì ha esagerato nel mangiare nel ber. B. L’ostinazione della contessa Fossadoro che non vuole fidarsi dei suoi consigli e si rifiuta di credere che il marito debba mettersi a letto. C. La difficoltà a formulare una diagnosi corretta sulla malattia del conte Fossadoro da parte del professo Leprani. D. La contraddizione per lui inspiegabile tra la diagnosi del professor Leprani e la guarigione del conte Fossadoro.
D
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A9. Perché Marasca insiste a voler convincere la contessa che il conte Fossadoro deve mettersi a letto? A. Perché si fida ciecamente del professor Leprani, il quale non ha mai sbagliato diagnosi. B. Per difendere la reputazione del professor Leprani e di ù conseguenza la propria carriera. C. Per evitare coinvolgere il conte e la contessa Fossadoro in uno scandalo. D. Perché è convinto che il conte sia gravemente malato nonostante sembri guarito.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A10. Che cosa indicano i puntini di sospensione all’interno del discorso del professor Marasca (righe 46 e 48)? A. Il pensiero sottinteso, non detto del professo Marasca. B. La rabbia trattenuta del professor Marasca. C. Le parole del professor Marasca che la contessa non riesce a sentire. D. Il rispetto del professor Marasca verso la contessa.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A11. Per quale motivo Fossadoro viene definito “terribile” (riga 67)? A. Per la sua severità di giudice. B. Per il carattere irascibile e testardo. C. Per la smodatezza nel mangiare e nel bere. D. Per la sua ostinazione a restare in vita.
D
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A12. A che cosa è dovuta la morte di Fossadoro? A. All’avvelenamento del suo cibo. B. Alle cure mediche sbagliate. C. A una cena molto abbondante. D. A un boccone andato di traverso.
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A13. Alla fine del racconto il Marasca, congratulandosi con il professor Leprani, gli vuole far capire che... A. la malattia ha fatto il suo corso. B. il suo prestigio è salvo. C. il conte è morto senza soffrire. D. le cure suggerite erano appropriate.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A14. Quale personaggio ha un ruolo fondamentale nella conclusione della vicenda? A. Il professor Leprani. B. Il conte Fossadoro. C. Il professor Marasca. D. Il cuoco di casa Fossadoro.
C
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2009_08_PN_A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A15. Qual è la durata della vicenda? A. Otto giorni. B. Circa due settimane. C. Circa un mese. D. Un tempo imprecisato.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A16. Come si può definire il racconto? A. Poliziesco. B. Fantastico C. Psicologico-introspettivo D. Umoristico-grottesco.
D
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971)
A17. Quale tra le seguenti frasi è la più adatta a sintetizzare il racconto? A. Una moglie tenta senza alcun successo di difendere il marito da un dottore in malafede. B. Un illustre medico dimostra l’esattezza della sua diagnosi nonostante molti gli dessero torto. C. Un assistente non si fa nessuno scrupolo pur di difendere la fama del suo professore. D. Un paziente, non fidandosi dei suoi dottori, trasforma una semplice indigestione in una malattia mortale.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B1. Che cosa dice l’autore della matematica e delle scienze? A. Sono i saperi più importanti nel mondo moderno B. Sono seconde per importanza alle conoscenze linguistiche. C. Sono l’elemento di successo nella società in rapida trasformazione. D. Sono il punto più debole dei lavoratori anziani.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B2. Con quale espressione potresti unire le due frasi che seguono (righe 6-10)? “[…] la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione.” “La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano”. A. Però. B. Anche se. C. Infatti. D. Eppure.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B3. Che cosa significa nel testo il termine “riciclare” (riga 9)? A. Collocare in un nuovo posto di lavoro. B. Sottoporre a colloqui di lavoro. C. Differenziare in base alle esperienze di lavoro. D. Allontanare dal posto di lavoro.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B4. Quando l’autore scrive “povero” italiano (riga 10), intende un italiano… A. con molte parole dialettali. B. grammaticalmente scorretto. C. parlato dai poveri. D. Con pochi vocaboli.
D
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B5. Secondo l’autore occorre studiare prioritariamente l’inglese, ma non tralasciare il francese e lo spagnolo, anche perché queste due lingue… A. sono utili per i mercati dell’Est e del Sud. B. permettono di intraprendere la professione di interpreti. C. sono facili da imparare per un italiano. D. sono lingue parlate in tutte il mondo.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B6. Qual è, secondo l’autore, il modo migliore per imparare le lingue straniere? A. Trascorrere periodi all’estero. B. Leggere libri stranieri. C. Vedere film in versione originale. D. Vivere di sole lingue.
A
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B7. Alla riga 31 la funzione di “Infatti” è quella di introdurre una frase che: A. fornisce un esempio di quanto detto prima. B. dimostra quanto detto in precedenza. C. conclude un ragionamento. D. contraddice l’affermazione precedente.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B8. Cosa intende l’autore per “virus” (riga 37)? A. Influenza passeggera. B. Gusto giovanile. C. Passione contagiosa. D. Pura fissazione.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B9. L’espressione “mobilità professionale” (righe 37-38) significa… A. spirito di iniziativa. B. interesse per il lavoro. C. “virus” dell’internazionalità. D. cambiamento del posto di lavoro.
D
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B10. Secondo l’autore, come si può affrontare la “minaccia della disoccupazione tecnologica” (riga 44)? A. Impegnandosi a imparare per tutta la vita. B. Andando spesso all’estero. C. Essendo disponibili a svolgere lavori faticosi. D. Leggendo giornali internazionali.
A
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B11. Che cosa indica il gerundio “viaggiando” nella riga 45? A. Lo scopo per cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità. B. La causa per cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità. C. Il modo in cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità. D. Il momento in cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità.
C
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B12. Quale fra le seguenti frasi contiene la tesi di fondo dell’autore? A. Per rispondere alle sfide della società globale è utile che i giovani tengano a mente i consigli dei genitori, interpretandoli con senso critico e adattandoli alla propria realtà. B. Per avere successo nella società contemporanea è necessario saper comunicare in pubblico, scrivere bene, conoscere le lingue, sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità. C. Per imparare a leggere e scrivere bene è indispensabile leggere un giornale al giorno e un libro al mese, e per imparare a parlare bene occorre vivere esperienze di vita associativa. D. Contro la minaccia della disoccupazione tecnologica, i giovani devono apprendere sempre cose nuove, studiare bene molte lingue straniere e praticare uno sport di squadra.
B
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Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993)
B13. Qual è lo scopo principale del testo? A. Convincere ad andare a studiare all’estero. B. Consigliare quali studi intraprendere. C. Suggerire come trovare un posto fisso. D. Indicare come prepararsi alla società globale
D
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C1. Quale segno di punteggiatura è sbagliato nel seguente periodo? Dario rispose alla zia: “Per ora non ho ancora preso una decisione definitiva, sulla scuola che frequenterò l’anno prossimo”. A. I due punti. B. Le virgolette. C. La virgola. D. Il punto.
C
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C2. In uno dei seguenti gruppi è presente un elemento che non gli appartiene. In quale? A. Pronomi indefiniti: molti, qualche, nulla, questo. B. Pronomi dimostrativi: coloro, colui, codesto, quello. C. Pronomi personali: io, lui, esso, sé. D. Pronomi relativi: che, cui, nel quale, da cui.
A
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C3. In quale delle seguenti frasi c’è un verbo passivo? A. Non sono per nulla soddisfatto della gara. B. Questa estate non sono andato al mare. C. Quest’anno non sono cresciuto molto. D. Non sono sempre aiutato dai miei genitori.
D
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C4. Nel periodo «Se studiassi meglio, avrei voti più alti!», il verbo “studiassi” è coniugato al: A. condizionale passato. B. congiuntivo imperfetto. C. congiuntivo passato. D. condizionale presente.
B
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C5. Quale di queste frasi contiene un complemento di modo? A. Bisogna aspettare con pazienza. B. Raggiunsi la villa con la macchina. C. Esco con un ombrello. D. Con questo tempaccio è meglio non uscire.
A
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C6. Quale dei seguenti periodi è formato da una frase principale e una frase subordinata? A. Piove e c’è il sole! B. Piove ma c’è il sole. C. C’è il sole, eppure piove! D. Sebbene piova, c’è il sole.
D
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C7. In quale dei seguenti periodi c’è una frase subordinata temporale? A. Ti ho appena detto che oggi l’autobus era in anticipo. B. Ho perso l’autobus perché questa mattina mi sono svegliato tardi. C. Mentre compravo il biglietto, ho visto passare l’autobus. D. Pur avendo perso l’autobus, sono arrivato a scuola in orario.
C
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C8. Come potresti sostituire “visto che” nel periodo: «Sarebbe meglio tornare a casa, visto che sta calando la notte»? A. Affinché. B. Poiché. C. Anche se. D. Prima che.
B
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C9. Con quale delle seguenti congiunzioni potresti unire le due frasi: “Il gatto insegue il topo” - “è un predatore”? A. Anche se. B. Ma. C. Perché. D. Affinché.
C
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C10. «Forse Giovanni non è la persona che credevo». Questo enunciato ha la funzione di formulare: A. una dichiarazione. B. un’ipotesi. C. una conseguenza. D. un’argomentazione.
B
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A1. La volpe, mentre aspetta paziente, che cosa pensa del riccio? A. Si comporta in modo maldestro B. È un animale molto stupido C. Si comporta in modo provocatorio D. È un animale molto cauto
D
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A4. Perché il riccio quando esce dalla tana si guarda intorno circospetto (riga 8)? A. Ha paura della luce del giorno. B. Tende un tranello alla volpe. C. Teme i pericoli all’esterno. D. È appena uscito dal letargo.
C
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A5. Che riflessioni fa la volpe dopo il primo tentativo di catturare il riccio? A. È decisamente meglio cambiare tattica. B. Il comportamento del riccio era molto prevedibile C. Ci sono forti dubbi sulla riuscita dell’impresa D. È meglio lasciar perdere vista la reazione del riccio
A
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A6. Se dovessi inserire una parola per collegare le due frasi seguenti : “Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa “ e “La volpe lancia un urlo di sorpresa..” (righe 15-16), quale metteresti? A. Infatti. B. Ed ecco che. C. Per di più. D. Invece.
B
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A7. Nella frase: “Deve avere una carne prelibata...” (riga 18) da quale espressione può essere sostituito il verbo deve? A. È necessario che abbia. B. È obbligatorio che abbia. C. È eventualmente possibile che abbia. D. È molto probabile che abbia.
D
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A8. Quale tra i seguenti aggettivi può sostituire sottile (riga 22) nel significato che ha nel testo detto di artifici, trucchi ed espedienti? A. Originale. B. Efficace C. Astuto. D. Intraprendente.
C
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2008_08_PN_A
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A9. Nella frase “Eppure ogni volta il riccio si appallottola…” (riga 24) quale termine corrisponde al significato di eppure e può sostituirlo? A. Dunque. B. Ma. C. Ebbene. D. Poi.
B
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A10. Come si può rendere con altre parole l’espressione “così appallottolato” (riga 24)? A. Dato che si è appallottolato come si era detto. B. Nonostante si sia appallottolato in modo particolare. C. Nel caso in cui si sia appallottolato come si era detto. D. Tanto più che si è appallottolato in modo particolare.
A
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2008_08_PN_A
multipla
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A12. Come sostituiresti il termine “dopotutto” all’inizio della riga 25? A. Dopo tutto questo tempo. B. Dopo tutti questi sforzi. C. Tutto considerato. D. Malgrado tutto
C
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